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Una luce sempre accesa

San Massimiliano Kolbe

Agosto 1941. Le sirene suonano. Un prigioniero riesce a scappare, la legge del Campo stabilisce che per questo dieci devono morire nel bunker della fame. Tra loro Francesco Gajowniczek. “Mia moglie, i miei figli!”, esclama piangendo. Le SS lo ignorano. Improvvisamente c’è un movimento nelle file immobili: un prigioniero, è uscito dai ranghi e si sta facendo strada verso la prima fila. “Signor comandante, vorrei farle una richiesta, per favore. Voglio morire al posto di questo prigioniero. Io non ho moglie e figli. Inoltre sono vecchio e non sono più buono a niente. Lui sta meglio di me”. “Chi sei tu?”, ringhia l’SS. “Un sacerdote cattolico”.

Quando si entra oggi nella cella riservata ai condannati a morte di fame e di sete subito si nota un cero pasquale, lasciato da Papa Giovanni Paolo II. In un ambiente oscuro e dalle pareti annerite dall’umidità, vicino ad altre celle spoglie, quel cero sembra fuori luogo. Com’è possibile che una piccola luce abbia sfidato le tenebre più oscure e sia rimasta accesa? Eppure, chi era presente quel 14 agosto, ha ricordato: “Dalla cella del blocco 11 si poteva udire la recita delle preghiere, il rosario, gli inni risuonavano in ogni parte del bunker, avevo l’impressione di essere in una chiesa. Quando aprii la porta di ferro, Kolbe non viveva più; ma si presentava come fosse vivo. La faccia era raggiante in modo insolito. Gli occhi largamente aperti e concentrati in un punto. Tutta la figura come in estasi. Non lo dimenticherò mai” (Bruno Borgowiec). I santi sono persone luminose, è l’amore che portano nel cuore che illumina e rischiara. Padre Massimiliano era stato arrestato dalla Gestapo perché pericoloso, le sue opere, la sua attività come religioso polacco e giornalista dava fastidio, l’accoglienza presso il suo convento di tanti disagiati, senza distinzioni di fede o nazionalità, non era tollerata dal regime nazista. Meglio spegnere quel lume, soffiare sulla fiamma e trasformarla in fumo. Il 15 agosto 1941 il corpo senza vita di padre Kolbe veniva bruciato nel forno crematorio, le sue ceneri sparse al vento. Ma la luce della sua testimonianza brilla ancora.

Questione di sguardo

Di Massimiliano Kolbe si ricorda soprattutto il suo gesto finale ma è stato solo l’apice di una vita missionaria a servizio del Vangelo e affidata con fiducia a Maria Immacolata. “Il mio sguardo è attirato, attratto da nuovi orizzonti. Conquistare il mondo a Dio attraverso Maria: bella missione per la quale vale la pena vivere, lavorare, soffrire, morire”. Con questo obiettivo, giovane studente francescano,  nel 1917 fonda a Roma, insieme a sei confratelli, la Milizia dell’Immacolata, un movimento di azione senza frontiere. Le difficoltà non sono mancate, fin da subito. Problemi di salute, incomprensioni dovute alle sue idee innovatrici e profetiche, lotte spirituali, sono state sue compagne di viaggio per tutta la vita. Tornato in Polonia con due lauree in tasca, l’esperienza romana e con un sogno sempre più vivo, dopo qualche anno costruisce la Città dell’Immacolata, Niepokalanòw, vicino Varsavia. Ascolto, intraprendenza, obbedienza, provvidenza messe insieme fanno sì che possa sorgere il più grande convento-città autogestito di ogni tempo. Al centro la cappella con l’adorazione eucaristica perpetua e accanto la tipografia. Per  realizzare  il  suo  sogno,  Massimiliano  usa  i  mezzi  più  moderni  allora conosciuti: la stampa, la radio, il cinema ed è convinto che ogni nuova invenzione debba essere messa a servizio della missione. Le critiche non lo fermano: “Cosa direbbe San Francesco?”. Risponde: “Si rimboccherebbe le maniche e lavorerebbe con noi”. Parte per il Giappone dove vivrà un’esperienza missionaria, nella povertà, pubblica una rivista nella lingua locale facendosi aiutare dai laici, ma con nel cuore il desiderio di andare in tutto il mondo. L’ultima missione però lo aspetta ad Auschwitz. Tornato da qualche tempo in Polonia alle prime avvisaglie poteva trovare rifugio e salvarsi. Decide di rimanere. 17 febbraio 1941:  padre Massimiliano viene arrestato dalla Gestapo e imprigionato nel carcere di Pawiak, a Varsavia. 28 maggio 1941:  è trasferito ad Auschwitz e diventa il prigioniero numero 16.670. L’ultimo saluto ai confratelli e agli amici: “Non dimenticate l’amore!”.

Lucia C.

(Testimonianze tratte da Massimiliano Kolbe, il Santo di Auschwitz di Patricia Treece, EI)

 
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